Collettivo per la liberazione social, per una tecnologia senza padroni
Il Manifesto
All’origine di Internet c’era un’idea, o forse un’illusione: costruire uno spazio aperto, orizzontale, in grado di connettere le persone. Un luogo senza centro né controllo in cui comunicare, partecipare, creare.
Ogni evoluzione prometteva più voce, più visibilità, più democrazia.
Poi sono arrivate le piattaforme. E con esse, la fine dell’utopia.
Abbiamo imparato a considerare i social network come semplici strumenti di espressione e intrattenimento. Luoghi dove interagire con gli altri, condividere contenuti, informarci, ispirarci.
Ma i social network non ci mettono in contatto.
Ci mettono in vetrina.
Hanno trasformato la nostra vita in contenuto, la nostra attenzione in moneta, il nostro tempo in prodotto.
Non ci ospitano. Ci progettano.
Immaginate un mondo in cui like, commenti e condivisioni non sono solo espressioni personali, ma ingranaggi di una macchina più grande. Una prigione di pixel che plasma le nostre percezioni, orienta le nostre decisioni, modella le nostre emozioni e i nostri desideri di consumo.
Gli algoritmi non sono neutrali: sono strumenti di potere.
Scritti da esseri umani, progettati per massimizzare l’interazione, amplificano rabbia, paura, dolore e desiderio, per tenerci connessi, reattivi, stanchi, dipendenti.
Costruiscono ambienti digitali che manipolano il nostro sguardo, ci ricattano emotivamente, ci rendono dipendenti. Non siamo noi a scegliere cosa vedere. Sono loro a scegliere per noi.
Dietro la facciata dell’intrattenimento, le piattaforme sono ambienti artificiali costruiti per manipolarci.
Non ospitano conversazioni: le condizionano.
Non distribuiscono informazioni: le ordinano in base a interessi economici e politici.
Non danno voce: premiano solo chi si piega alle logiche del sistema.
Tutto questo non è un effetto collaterale.
È il progetto.
La sorveglianza è parte integrante del design.
La dipendenza è una funzionalità, non un errore.
Il nostro scroll è l’equivalente digitale della catena di montaggio.
Noi diciamo basta.
GILDO è il nome della diserzione.
È un atto di resistenza digitale.
È uno spazio libero da like, engagement e metriche tossiche.
Un luogo per chi vuole immaginare una tecnologia diversa: umana, consapevole, non estrattiva.
Vent’anni di social network hanno prodotto una mutazione antropologica profonda.
Senza che ce ne accorgessimo — o fingendo di non vederlo — abbiamo trasformato il nostro tempo, la nostra identità, la nostra intimità in moneta di scambio.
Siamo stati compressi in estetiche forzate, linguaggi prefabbricati, identità performative, sempre in competizione per una visibilità che non emancipa, ma cattura.
Dietro ogni scroll, c’è un algoritmo.
Dietro ogni algoritmo, una volontà di potere.
Dietro quella volontà, un modello di sfruttamento.
I social non sono strumenti neutri.
Sono dispositivi di controllo sociale, progettati per modificare comportamenti, orientare emozioni, generare dipendenza.
Le piattaforme non ci connettono.
Ci organizzano, ci schedano, ci addestrano.
Premiano i contenuti più estremi, amplificano emozioni forti, fomentano conflitto, saturano l’attenzione, monetizzano ogni gesto.
- Ogni like è una microtransazione emotiva.
- Ogni contenuto virale è un’esca.
- Ogni notifica, una scarica di dopamina studiata per renderci dipendenti.
Il dolore diventa trend.
La malattia, spettacolo.
I bambini, strumenti di guadagno.
La morte, materiale virale.
È un sistema che mercifica l’umano.
Un’economia dell’umiliazione, della pornografia emotiva, della miseria esibita.
Nel XXI secolo, il potere si è spostato: non più nei parlamenti, ma nei server.
Non più nei palazzi, ma nei codici.
I CEO delle Big Tech non sono semplici imprenditori.
Sono oligarchi digitali.
Scrivono le regole del mondo, orientano decisioni politiche globali, influenzano elezioni, governano attraverso l’algoritmo.
Non operano più nell’ombra. Oggi siedono in prima fila, accanto ai governi.
Non vendono tecnologia. Vendono consenso.
E intanto noi, utenti, cittadini, lavoratori, abbiamo accettato che tutto ciò sia normale.
Abbiamo ceduto i nostri dati, la nostra attenzione, la nostra immaginazione.
Noi diciamo basta.
Non accettiamo più di essere solo “utenti”.
Siamo cittadini digitali. E pretendiamo un’altra tecnologia.
- Vogliamo una regolamentazione globale che limiti il potere delle piattaforme.
- Vogliamo protezione dei dati, trasparenza degli algoritmi, accesso critico al digitale.
- Vogliamo un’etica della comunicazione che rifiuti lo sfruttamento e la semplificazione.
- Vogliamo un linguaggio che restituisca complessità, e non algoritmi che la distruggano.
- Vogliamo comunità orizzontali, costruite sulla fiducia, non sul branding.
- Vogliamo educazione strutturata, non storytelling aziendali.
- Vogliamo tecnologia al servizio delle persone, non del profitto.
GILDO è uno spazio di resistenza, un laboratorio di pensiero critico, un luogo dove l’algoritmo non detta le regole.
È un osservatorio multi-disciplinare per analizzare e comprendere gli effetti pervasivi che i social hanno sulle nostre vite.
GILDO è un nome partigiano.
È memoria di resistenza.
Oggi torna a indicare il nemico:
le piattaforme, i loro padroni, i loro dispositivi di dominio.
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